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 Dialogo sulla Morte (Dialogue on Death)
 Collettiva internazionale a tema

  The Crypt Gallery, Londra
  13-23 marzo 2015
Artsiti selezionati: Gudrun Adrion (D), Benito Aguzzoli (I), Aleksandr Aksinin (RUS), Livia Balu (CH), Alan Brain (UK), Diego Burigotto (I), Agnese Cabano (I), Catalina Carrasco (EC), Luigi Cervone (I), Venere Chillemi (I), Solveig Cogliani (I), Susana Diaz Rivera (MEX), Marianne Emmenegger (D), Claudio Giulianelli (I), Carlo Guidetti (I), GUIKNI (MEX/I), Andreas Hafner (CH), Stefan Havadi-Nagy (D), Francia Iñiguez (E), Natasha Kimstatch (NOR), Mauro Martin (I), Mattia Mascagni (I), Roberta Moresco (I), Patrizio Mugnaini (I), Gaby Muhr (A), Päivyt Niemeläinen (FI), Antoinette Pallesi (F), Marie Perrakis (GR), Siegfried Pichler (D), Andrea Pierus (A), Yajaira M. Pirela (VE-I), Gianmario Quagliotto (I), Elvio Ricca (CH), Gabriele Schuller (D), Fiorenzo Senese (I), Sue Skitt (UK), Alejandrina Solares (DO), Josefina Temín (MEX), Gianna Tibaldi (I), Burçin Ünal (TR), Felizitas Wermes (MEX), Ersoy Yilmaz (TR).

Quello che ho cercato di analizzare con questa mostra è forse l’ultimo vero tabù. Ormai siamo costantemente circondati dall’idea della morte: nei telegiornali arrivano a mostrare le esecuzioni di prigionieri di guerra, teschi impazzano su abbigliamento ed accessori (non a caso Damien Hirst rimane l’artista vivente più noto, anche ai profani dell’arte), questo mentre tanto si è detto della difficoltà sempre più pressante di discernere la realtà dalla finzione, quest’ultima intesa come virtuale. Test sociologici che fanno “morire” attori in aree affollatissime della metropolitana delle grandi capitali mondiali, e nessuno o quasi che si ferma a dare soccorso. Cos’è la morte per l’uomo di oggi? È davvero così normale come sembra? Qualcosa che ci lascia indifferenti? Ed ancora: a cosa colleghiamo il concetto di morte? Alla malattia? Alla guerra? Ad un inarrestabile ciclo vitale? L’ho chiesto ad una quarantina di artisti, di estrazione, tradizioni e provenienza culturale molto diverse tra loro, e questa mostra ne è il risultato.
A giudicare dalle tematiche trattate dagli artisti, ai quali ricordo lascio sempre la libertà di sviluppare l’opera secondo la tecnica e la ricerca che li contraddistingue, direi che è la guerra ad essere vissuta come primaria causa di morte. E dire che l’uomo moderno si vanta spesso di aver appreso la lezione, soprattutto dopo le due catastrofiche Guerre Mondiali. Ed è proprio da qui che intendo partire, per accompagnare il visitatore attraverso la lettura iconografica del nostro percorso espositivo.
Alan Brain ha dedicato un intero ciclo di opere alla Grande Guerra nel 2014, ancor prima che proponessi la mia mostra e quando ancora le nostre strade professionali non si erano incontrate. 1914 dà il via alla serie. E qui letteralmente si apre il sipario sul conflitto che, come afferma egli stesso in una descrizione lucida ed attenta della propria ricerca, ha cambiato la vita di tutti noi. La geometrizzazione delle forme contribuisce non solo a dare un valore universale a ciò che Alan definisce “paura e gelosia”, ma al contempo rende l’idea dell’ineluttabile sviluppo di una situazione “prevedibile, logica e bloccabile”, ma che nonostante ciò è andata avanti, inesorabile, verso la rovina. A Soldier’s Journey ne mostra le conseguenze: una distesa di lapidi, a trasformare un campo di battaglia in un luogo di pace eterna. Erano queste le grandi speranze dei giovani che partivano con l’idea di difendere la Patria? Ed ancora: Menin Road, che consentiva di dominare la pianura circostante -e le truppe nemiche-, passando ora sotto il controllo dell’esercito inglese, ora tedesco, e tutt’intorno trincee, cadaveri e fango. A proposito di Poppies, invece, vorrei far parlare ancora Alan: «Beautiful red poppies appear in thousands each spring in Flanders and disappear soon afterwards, just like the soldiers. No wonder it has become the British symbol of remembrance. This painting connects a soldier's helmet to the poppy.» In Trench è palese il ricondurre la trincea alla morte. È una bara direttamente scavata nella terra, solo apparentemente luogo di riparo. Credo che tra tutte le sue opere esposte Aftermath sia la più inquietante e complessa: torna l’idea della bara, che stavolta però costituisce, anzi sostituisce, il corpo del soldato. Il volto è quello di un uomo morto, come in decomposizione. Cosa succede al soldato che ha la fortuna di tornare dalla guerra? Quest’opera ne denuncia gli effetti subdoli, a sottolineare come, in realtà, dalla guerra non si torna. Fisicamente forse, ma psicologicamente mai. Ed ancora una volta, cosa rimane a guerra finita? Un albero. È Danger Tree; la Natura che dall’alto della sua saggezza continua a beffarsi dell’uomo.
A questo punto la coeva produzione scultorea di Francia Iñiguez si inserisce perfettamente nel discorso e nel percorso espositivo. The Poppy vuole essere un omaggio a Wilfred Edward Salter Owen, considerato il maggiore poeta inglese dell’epoca della I Guerra Mondiale e che a soli 22 anni si arruolò volontario, testimoniando in tal modo gli orrori delle trincee. Wilfred appare con la testa china e lo sguardo assorto proprio sul fragile papavero che reca tra le mani, come sottolineano le parole di Francia che pure aiutano nella lettura del suo secondo bronzo esposto, 11 Poppies. Qui l’elmetto non fa più paura e da guerra e morte tornano a scaturire la bellezza della Natura, nella sua apparente fragilità. Ancora: Hope vs. Death trae spunto dalle figure della Temperanza e della Morte dei Tarocchi di Marsiglia per rappresentare la lotta per mantenere la speranza in tempi di guerra, come sottolinea la stessa artista. Le due allegorie si combattono ad armi pari, eppure la Speranza sembra soverchiare la rivale. Certo è che la loro eterna lotta è circondata da cadaveri e da brandelli umani, così come da uniformi. E non fa differenza che essi appartengano alle schiere di tedeschi, inglesi o francesi. L’unico ad essere ancora in vita è un ragazzo che si “aggrappa” simbolicamente al piede dell’angelo; tutti gli altri, ormai cadaveri, creano un tutt’uno con la Morte. Inoltre, ancora più interessante, è il fatto che la Speranza occupi il lato sinistro della composizione, a simboleggiare quanto essa raffiguri uno stato più mentale che reale, e purtroppo colei che risulta coi piedi ben piantati in terra è proprio la Morte. L’ultima delle opere bronzee di Francia si intitola The Soul Collector e raffigura l’angelo della morte, che scende sulla figura umana recando una chiave appesa al collo. Questa consentirà l’accesso all’aldilà, quel lato che, come una porta, si aprirà davanti a noi a tempo debito.
L’idea della guerra continua ad imperare nell’opera di Diego Burigotto, Why? (2014). Ispirata alla celebre frase scritta da Jean-Paul Sartre in “Il diavolo e il buon Dio” e riportata tradotta in inglese sul retro della tavola, “When the rich wage war, it’s the poor who die”, essa mostra un bambino, rimasto ormai solo in un contesto post-bellico. Per questo il suo volto appare innaturale, più simile a quello di un adulto, segnato e contratto in una smorfia perché, come sottolinea l’artista, «la guerra non ha permesso di essere un bambino». La tecnica utilizzata, quella pirografica (dal greco antico, che scrive col fuoco), non fa che sottolineare, unitamente al collage realizzato con pezzi di legno e ferro, il senso di distruzione, letteralmente di bruciato. Una sorta di tabula rasa che tutto annienta.
Una delle più antiche e diffuse iconografie legate alla Morte è quella della cosiddetta Danza macabra. Molto famosa quella eseguita da Bernt Notke e custodita a Tallinn presso la Niguliste Kirik, essa mostra l’imperatore, il cardinale, uomini e donne di corte, ma anche contadini ed artigiani nella parte andata distrutta, che danzano al suono della cornamusa, afferrati per gli arti da figure scheletriche. Le opere di Livia Balu, Totentanz-Lebenstanz 4 e 5, eseguite nel 2012, sono anch’esse concepite come un fregio costituito da più elementi a ricordare le lunghe composizioni tardomedievali, in cui la Morte, più democratica degli stessi regnanti e degli uomini di Chiesa, arriva prima o poi per tutti: giovani ed anziani, uomini e donne, colti ed analfabeti, ricchi e nullatenenti, belli e brutti. Il re e la regina, recalcitranti ed impauriti, vengono presi per mano dalla Morte, dalla quale non ci si può sottrarre… È quella stessa Morte che falcidia teste coronate e gente comune, così come compaiono nella XIII carta dei tarocchi marsigliesi, a campeggiare su un orologio da tavolo, oggetto espressamente creato per la mostra da artigiani ceramisti di Deruta dietro mia richiesta, anche a sottolineare l’evidente connubio tra la Morte, appunto, ed il Tempo.
Altro esempio di memento mori (letteralmente: ricordati che devi morire) è la vanitas (dalla Bibbia “vanitas vanitatum et omnia vanitas”), ammonimento che ribadisce la caducità dell’esistenza, ma anche di bellezza e ricchezza. Natasha Kimstatch ne ha dato con Brazen Head (2011) l’esempio forse più eclatante. Di caravaggesca memoria, il teschio campeggia sul drappo rosso (rosso come il sangue, ma anche come l’abito cardinalizio, e qui le citazioni si accavallano nella mente dello spettatore), a ricordarci che, a prescindere da tutti i nostri sforzi, qualunque tipo di persona siamo oggi, diventeremo quello: solo ossa. Ancora in Cockaigne (2015) denaro e gioielli sono lì, inalterati, mentre il corpo si è disfatto. È come dire: rassegnati a perdere ogni tua ricchezza giacché la Morte ti toglierà tutto ciò che hai e che ancora, invece, ti accanisci a possedere. In Janicot (2012) il teschio è quello di un capro, evidente riferimento al dio cornuto della religione wicca. Senza perderci o dilungarci tra le pieghe della Wicca gardneriana o della simbologia esoterica della capra nel pentagono invertito, e che comunque nell’opera in questione andrebbe letta esclusivamente in chiave pagana, ovvero come riferimento al dio Pan ed alla supremazia della Natura sull’uomo, quindi come talismano tout-court e non certo in chiave satanica, ciò che mi sembra più funzionale ai fini espositivi è sottolineare come la ieraticità dell’immagine da un lato, e la ricchezza della cornice -particolare da non sottovalutare- dall’altro, rimandino alla raffigurazione del sacro.
Sempre ad antiche credenze pagane rimanda uno dei lavori di Patrizio Mugnaini, Porta della sera (2012). Il dolmen funge da camera sepolcrale, ma certamente il concetto di passaggio è implicito nella sua forma. Iconograficamente Oltre i limiti (Beyond Limits), anch’esso del 2012, di Gianna Tibaldi si lega perfettamente al dolmen, a dimostrazione del fatto che passano i millenni ma la morte viene sempre recepita dall’uomo come un momento di attraversamento. In questo caso verso un’altra dimensione. Nella tela non si fa cenno ad elementi negativi, piuttosto ad una strada lastricata, indicata con chiarezza, ed in realtà sottolineata da un percorso agevolato, in cui torna la presenza della Natura, con alberi privi di fogliame ma che al contempo, di un colore solare, esprimono vita. L’opera di Carlo Guidetti, Il rivolo (2014), accompagna lo sguardo verso una linea dell’orizzonte che appare lontana, brumosa. Facile la comparazione con la linea della vita che corre via dritta, ma sempre verso un unico lido, uguale per tutti. Anche Dream (2014) di Siegfried Pichler mostra una via ben segnata, che si perde nel fondo della composizione e che si presume accompagni il dormiente/defunto nel suo ultimo viaggio. Interessante il fatto che la condizione di morte sia qui associata al sogno. Nella seconda opera esposta, Seelenwanderer (2015), i due gufi notturni simboleggiano la metempsicosi dell’anima che dopo la morte terrena vaga fino a raggiungere un nuovo corpo, per poi rinascere.
La meditazione sulla morte torna ad essere il soggetto dell’opera di Claudio Giulianelli, Quello che non so (2005). Nella sua ricerca il burattino è sempre parte integrante dell’opera, in un dialogo muto con la figura umana, uomo o donna che sia. Qui la morte veste gli abiti della sposa, velata di bianco; un memento mori che gioca sull’inscindibile legame vita/morte e che ribadisce che la sposa è lì, sui gradini dell’altare, ad aspettare noi, il suo sposo. Anche nelle due opere di Alejandrina Solares c’è un incalzante monito, ripetuto come un mantra e scritto a chiare lettere: I will die… I will die… I will die… Estremamente evocativi, tali lavori dal titolo BalloonHandwritting blue v1 e New BalloonHandwritting blue v1, entrambi del 2014, non solo rimandano al concetto di memento mori (mi concedo una breve digressione rivolgendomi agli amanti del cinema italiano ed a quel capolavoro senza tempo che è Non ci resta che piangere (1984), scritto, diretto ed interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi, ricordando la scena in cui Savonarola incalza il secondo col suo «Ricordati che devi morire!») ma anche, dal mio punto di vista, a quello di karma. In particolare nell’installazione mi piace leggere quella sorta di sacco in cui confluiscono i brandelli/strisce di tela come una sorta di sporta, o meglio di anima. Tutte le nostre azioni finiscono lì dentro, e quella frase ossessiva (I will die…) è proprio quel memento mori cui accennavo.
Nelle opere di Sue Skitt torna il concetto di vanitas. Vanitas Skull and Grapes (2012), scelta come immagine simbolo della mostra, guarda soprattutto alle rappresentazioni pittoriche del Seicento spagnolo ed olandese. Cambiano il supporto ed il medium, certo –oggi li definiamo still life- ma l’idea di fondo rimane invariata. Le sue composizioni congelano gli elementi, fissandoli per sempre, eternamente belli e vigorosi. L’uva, o la mela nella seconda opera esposta, Vanitas, Beauty, anch’essa del 2012, non marciranno mai. Un tentativo di preservare la bellezza? Solo apparentemente, perché il concetto di bellezza è in realtà demandato ad un ammasso di carne tenuto assieme da punti di sutura, posto accanto ad una mela. Dalla matrigna di Biancaneve alle cicatrici di Orlan, rispettivamente la standardizzazione e la massificazione dei canoni di bellezza ed il loro opposto, con la chirurgia “estetica” come mezzo di distinzione e non più di incasellamento. Perché non c’è nulla di più transitorio ed effimero della bellezza.
Anche l’opera di Felizitas Wermes, Fuga mortis (2014), acquisisce tale valenza di fuga temporis, che vanifica ogni cosa terrena. Qui inoltre c’è l’idea della repentinità e della sorpresa, a sottolineare come la Morte può raggiungerci all’improvviso e senza preavviso, in qualsivoglia momento della nostra vita. Andrea Pierus, invece, con la sua installazione, squarta il busto umano (il torso di suo marito, ammette) e ne fa pendere le viscere, ma anziché una truculenta dissezione anatomica la varietà dei materiali utilizzati e la loro cromia ne attenuano la drammaticità.
Mi piace leggere Enlightenment Delusion (2010) di Andreas Hafner come la sconfitta del pensiero scientifico/illuminista nei confronti della morte. La filosofia ed il credo religioso possono aiutarci ad accettarne l’idea, ma di certo per quanto l’uomo tenti un approccio scientifico alle problematiche legate alla morte -cosa succeda effettivamente all’anima durante e dopo il trapasso-, la delusione è destinata a rimanere l’unica costante.
Nei lavori di Catalina Carrasco, tutti datati 2015, si respira un’atmosfera di dannunziana memoria. Ne La chambre l’angelo è sdraiato su un letto a baldacchino, attorniato da una miriade di oggetti definiti sin nei minimi particolari, in un horror vacui che rimanda lo sguardo da una parte all’altra della superficie, tra parti di automi, orologio e candele, toletta e profumi, ritratti di defunti -alcuni dal corpo diafano e circondati da farfalle-, uno specchio che strizza l’occhio al Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan van Eyck e persino un gatto nero. Un’ambientazione gotica, nell’uso moderno del termine, e che ritorna in un’altra opera, Unique. La donna, pallida e dal volto circondato da farfalle -anche lei-, con un collarino da cui pende l’effige della Morte (la Catrina?), ritratta di profilo. E proprio il ritorno al gotico, forse poco diffuso in Italia, ma che certamente invece si respira a Londra, complice quel gusto e quello stile vittoriani che riempiono di corsetti, crinoline e cammei le vetrine di mezza città, mi hanno ispirato il primo prodotto di un progetto che ho chiamato “Legàmi d’arte”, giocato sul connubio tra arte ed artigianato. Facendo il verso proprio ai cammei vittoriani, ho chiesto a maestri ceramisti e decoratori di Deruta di creare, sulla scia di un’opera dipinta da Alessio Gessati quale omaggio a Pollaiolo e quale parte di un ciclo dedicato ai Maestri rinascimentali che maggiormente hanno segnato la sua formazione artistica, un medaglione decorato a mano. Una rivisitazione, in chiave rinascimentale, di un must della goticomania, in tiratura limitata a 30 esemplari, tutti rigorosamente dipinti a mano, che lasceranno in me un ricordo indelebile di questa mostra.
Tornando alle opere di Catalina, l’ultima tra quelle selezionate è Ophelia, fluttuante nel suo letto di morte, raffigurata nel momento topico della tragedia shakespeariana, ovvero nella descrizione che ne fa Gertrude, madre di Amleto .
Opera intrisa di lirismo quella di Burçin Ünal, Call Me When You Get There (2014). La trasparenza e la fragilità del vetro rimandano all’idea che la morte non cancella la nostra esistenza, semplicemente la cambia, la altera, spostandola in una dimensione “altra”. La morte, come la vita, è un passaggio da uno stato verso un altro stato, alcune sostanze si possono liquefare ed altre, invisibili fino ad un istante prima, possono invece materializzarsi. Il suo è un messaggio sussurrato alle persone che ha amato e conosciuto, che appare come scritto sulla superficie appannata di un vetro che sovrasta ed incastona un piccolo orologio .
Un artista la cui ricerca è prepotentemente intrisa di simboli riferiti all’imprescindibile legame vita/morte è Aleksandr Aksinin (1949-1985). Le 5 incisioni esposte -ma avremmo potuto esporne l’intero corpus, vista la presenza costante di iconografie che rimandano al tema-, fanno parte di una serie di ex-libris del 1981 e mettono in scena teschi (A. Aksinin’s Birthday), lamette (Valeria Slavnikova), il mito di Scilla e Cariddi (Scylla and Charybdis) diventato, nei modi di dire, sinonimo di pericolo assoluto, come trovarsi tra due fuochi che non danno scampo. E la morte non ne dà. E non l’ha certo data ad Aksinin, che aveva il terrore di volare e, beffa del destino, è precipitato con un aereo che lo riportava da Tallinn verso la natia Lviv, schiantatosi ormai prossimo alla meta. Ammirandone oggi le opere penso che mi sarebbe piaciuto conoscerlo ed avere direttamente da lui una lettura. Chissà se mi avrebbe risposto, come fece ormai molti anni fa Lorenzo Alessandri, quando mi svelò che ciò che ritraeva nei suoi quadri non aveva nulla a che vedere con la fantasia e che lui tutti quegli ibridi e figure improbabili in situazioni altrettanto tali li vedeva sul serio!
Il male di vivere sembra essere il protagonista occulto dell’opera di Gabriele Schuller. In Mitten aus dem Leben (In the Middle of Life) (2014) la Morte abbraccia una giovane, un’adolescente a giudicare dall’abbigliamento, mentre compie letteralmente un salto nel vuoto. C’è una chiave di lettura che va più in profondità rispetto a quella della morte che non si ferma davanti a nulla (sesso, età, estrazione) e che spalanca invece la porta verso un problema sociale purtroppo molto presente, ovvero dell’inadattabilità, del sentirsi fuori luogo (teen-agers che seviziano ed uccidono altri coetanei, internet che diventa un non-luogo in cui poter diffamare chiunque, droga ed alcool che sembrano essere innocue vie di fuga). Non è certo questa la sede in cui sviluppare una tematica tanto ampia, ma che almeno essa dia degli stimoli di riflessione. Mi piace ricondurre anche un’altra delle opere di Patrizio Mugnaini, Chiodo fisso (2012) al malessere interiore. Avere un chiodo fisso in testa, pensare costantemente a qualcosa, in questo caso fare della morte un pensiero che accompagna la quotidianità. Scettro (2013), invece, esprime un concetto non affrontato in mostra da altre opere. Nella sfera che sovrasta il simbolo del potere di re ed imperatori si legge chiaramente l’inquietante profondità delle cavità orbitali, forse a sostenere il patto che sovente i potenti stringono con forze ben più oscure.
La morte intesa come perdita di persone amate ed il loro ricordo ricorre nell’opera di Mauro Martin. The Sad Mothers (2014) è tratta da una foto del 1941-‘42 in cui alle spalle delle tre donne, di evidenti età diverse, si susseguono delle gondole, il Canal Grande, il fianco di una nave da guerra pronta a salpare ed un particolare della Basilica della Salute. L’opera, oltre a citare le origini veneziane dell’artista, fa anche riferimento all’inevitabile richiamo alle armi di soldati e la conseguente ricaduta della guerra sulla vita dei civili. Le donne qui rimangono letteralmente in attesa sulla banchina che i loro cari -mariti, fratelli, figli che siano- rientrino. Molte di loro aspetteranno invano. Inoltre la gondola, caratterizzata dall’unico evidente intervento pittorico dell’opera, cattura lo sguardo e quasi distrae l’attenzione dalle tre donne. Mi torna in mente la scena della bambina col cappotto rosso nel film di Steven Spielberg, Schindler’s List (1993). Ebbene, quel tocco cromatico ha la forza di riportarci al presente, a testimoniare un ricordo ancora ben vivo, lo stesso che prova una madre per il figlio perso. È un feto che Agnese Cabano fa sotterrare alla sua figura femminile in La culla nel deserto (2012), simbolicamente protetto/avvolto da un camaleonte, chiaro riferimento alla trasformazione ed al passaggio dalla vita alla morte alla vita, ancora. Benito Aguzzoli fa un omaggio ad Arnold Böcklin con la sua L’isola dei morti (2013). Da sempre la scena con la piccola barca a remi guidata da un novello Caronte che si avvicina, col suo carico di una figura vestita di bianco ed una bara dello stesso colore, verso un isolotto circondato da rupi scoscese, nelle quali si aprono quelli che sembrano essere portali sepolcrali, affascina chi la guarda, tanto che persino Hitler ne acquistò una delle versioni originali. Nell’opera di Aguzzoli, in chiave moderna, l’isolotto viene coperto da nuvole e la barca si muove verso un triangolo, rispettivamente sinonimo di “cielo” e raffigurazione di Dio in chiave cristiana. Anche Silent Prayer (2013) di Mattia Mascagni ci guida in seno alla religione cristiana, alla sacralità della morte. Se da un lato lo scatto in bianco e nero e l’assoluta assenza di figure umane potrebbero far pensare alla solitudine della morte, la presenza dell’angelo, di contro, allude al suo ruolo di trait-d’union col divino. Si pensi in particolar modo all’angelo custode, che accompagna ogni persona nella vita, aiutandola nelle difficoltà e guidandola verso Dio. È la sua figura asessuata, quindi, che indicherà ed illuminerà la via all’anima nel momento del trapasso. Ancora una figura a fare da tramite, stavolta tra Zeus e gli uomini: Iris di Päivyt Niemeläinen, datata 2011. Secondo la mitologia greca era suo il compito di annunciare messaggi funesti. Personificazione dell’arcobaleno, tanto che alle sue spalle compare proprio l’arco celeste, nella chiave di lettura prescelta dall’artista finlandese c’è proprio il ruolo di accompagnare le anime delle donne verso i Campi Elisi.
Il mistero della vita e della morte (1976) di Elvio Ricca fa dialogare un adulto ed un bambino, il primo che sembra “istruire” il secondo, in una sorta di passaggio di testimone. La civiltà è lontana, relegata sullo sfondo ed appena accennata da altissimi palazzi, mentre tutto intorno l’ambientazione è desertica, dominata dalla personificazione della morte, assisa e monolitica, avvolta da alberi secchi e da radici che cercano invano di attingere linfa da crostoni di terra arida. Questa sorta di meditazione interiore torna nell’opera di Luigi Cervone, Ligneo presagio d’autunno (2006). Il bellissimo volto, tanto increspato dalle rughe quanto l’abito che indossa lo è dalle pieghe, è rivolto verso un buco nero, uno squarcio aperto in un reticolato che allude agli incontri, alle relazioni, alle esperienze che si sono intrecciate nella vita di ogni singolo individuo. Le due opere di Fiorenzo Senese, Pain e Seasoned Trunk, entrambe del 2009, mostrano la morte come parte integrante del ciclo vitale della Natura. Addirittura la prima fotografia suggerisce un senso di dolore latente e di ferita insanabile, con la resina che taglia in due la sezione trasversale del tronco, come un rivolo di sangue che scorre lungo gli anelli di accrescimento ad indicare, come noto, l’età della pianta. Gli anelli stanno alla vita dell’albero come le rughe stanno a quella dell’uomo, in un continuo rimando di affinità Uomo/Natura e di condivisione del ciclo vitale. Questa idea torna nell’opera di Ersoy Yilmaz, The Moon (2013), in cui la figura è ripiegata su se stessa, nell’atto meditativo, solitaria come l’albero che compare sullo sfondo. È la Natura, in una visione romantica dell’esistenza, che si rende partecipe del sentimento umano, condividendone il dramma. Anche in Si fa sera (2013) di Patrizio Mugnaini, con la figura stavolta prona a ricercare un contatto diretto con la terra, è evidente il pensiero meditativo sulla morte, non fosse altro che per il riferimento nel titolo alla sera, intesa sì come fine della giornata, ma anche della vita. La luna enorme a sovrastare il corpo e la gigantesca torcia (simbolo di vita ma che qui appare pietrificata nella fiamma) fanno il resto. La piccola scultura di Roberta Moresco dal titolo Peter il sognatore. Ed è subito sera (2013) raffigura il protagonista di molte sue opere, in un momento di totale solitudine. Tuttavia, a differenza dell’azione che sempre accompagna Peter nelle altre sculture a lui dedicate, qui egli compare seduto, in attesa; ma di cosa, se l’unico accenno al movimento appartiene alla cravatta? Della sera/morte, come appare evidente dal dichiarato omaggio all’omonima poesia di Salvatore Quasimodo. Portatore di luce (2013) di Patrizio Mugnaini riporta l’uomo all’azione, tuttavia sotto un’insostenibile pesantezza dell’essere.
Ad una visione prettamente cattolica rimandano le opere di Antoinette Pallesi, con la figura del Cristo in croce. Il volto dolorante, la corona di spine, il sangue che sgorga dalle ferite, rientrano appieno nell’iconografia tradizionale, lasciando scaturire nel fedele un senso di profonda pietas. Nell’opera di Solveig Cogliani, Croce e Resurrezione (2014), è lasciato alla cromia ed alla sua violenza espressiva, nella scelta del linguaggio informale, il compito di dover rappresentare quello stesso sentimento di pietas. Dal rosso sangue al Sacro Graal dell’opera di Gianmario Quagliotto il passo è breve. Il calice della rigenerazione (2012) mostra un uomo e una donna in un’ambientazione non ben identificata, una sorta di limbo che ben si presta a raffigurare quel momento di passaggio tra la vita, la morte e la resurrezione. Secondo la tradizione medievale la coppa, quella stessa che era servita per la consacrazione dell'Ultima Cena, fu utilizzata da Giuseppe d’Arimatea per raccogliervi il sangue di Cristo. È tale atto di bere dalla coppa ad assicurare la vita eterna. Di qui la raffigurazione di un passaggio in atto, di una trasformazione in fieri evidente soprattutto nell’uomo, in una posa di abbandono vigile. Non poteva mancare, ancora in chiave squisitamente cattolica, il giudizio universale. Last Judgement (2009) di Stefan Havadi-Nagy sviluppa l’opera su distinti piani prospettici. Sullo sfondo, ben definito, uno scorcio urbano dal sapore rinascimentale, mentre in primo piano, impalpabili e fluttuanti come protozoi o fantasmi, figure che ormai di umano hanno ben poco, abbandonate in un flusso che attraversa l’intera composizione conducendo lo sguardo fino al volto della Sindone. Ancora una figura informe è quella rappresentata da Yajaira M. Pirela in Fantasmi II (2014). Qui tuttavia il colore non rimanda ad un sentimento di morte e non si avverte alcuna sensazione di negatività, ma solo la percezione di un mutamento formale, di una ennesima trasformazione in atto. L’opera di Gaby Muhr Thoughts in Fall (2014), invece, causa la fissità della figura ed il suo essere diafana, interamente giocata sui toni del grigio-bianco-bruno, rimanda in maniera più netta all’idea del fantasma.
Gudrun Adrion, con la sua installazione From Eternity to Eternity (2014) fa riferimento alla morte della Chiesa. In realtà è più un’implosione. La sedia a rotelle cui la chiesa è letteralmente incatenata, a sua volta impacchettata e costipata, non le consente movimenti liberi. È la fissità, da essa stessa voluta e riconosciuta nell’incapacità di aggiornarsi e confrontarsi col mutevole mondo esterno, a decretarne la morte, o meglio un suicidio, perché conscio e tuttavia non più rallentabile.
Per Marie Perrakis la morte è buio, intesa come mancanza di luce, se in Life (2005) il guizzo rosso rappresenta l’unico accenno di vita, appunto, in una superficie che non lascia intravedere altri spiragli, ma che spinge lo sguardo dello spettatore verso il profondo più cupo.
Con le opere delle artiste messicane si apre un nuovo capitolo nell’ambito della cultura della morte. El día de los Muertos festeggia la Morte con ricche offerte di cibo e bevande, ma anche con musica. Altrettanto diffuse le sue raffigurazioni caricaturali in cui La Catrina appare nuda ma con un enorme cappello a contraddistinguerla. GUIKNI raffigura Las calaveras (2014), che nella festa dei morti divengono delle onnipresenti decorazioni -persino i dolci vengono realizzati sotto forma di teschi-, mentre Josefina Temín ha realizzato una serie di opere in carta (papel picado nella corretta denominazione, che necessitano di certosino lavoro e sono delicatissime da custodire) dal titolo Nadamás senos adelantaron... (They only went forward…) in cui viene esaltata la figura di Catrina. Va sottolineato che nella cultura messicana El día de los Muertos non va assimilato ad Halloween, in cui prevale un sentimento di paura/orrore; in Messico essa, al contrario, è una festa per ricordare il defunto e festeggiarne la sua ricongiunzione con i familiari e le persone amate ancora vive, solo per un giorno. È pertanto una condizione festosa, da aspettare con ansia e da suggellare con ricchi pasti, musica allegra e dolci sfiziosi. Ecco quindi che anche Bones and the Eternal Spirit (2014) di Susana Diaz Rivera prende spunto da quella miriade di oggetti decorativi pensati per tale festa, piccole marionette scheletriche, tutte snodate e tutt’altro che terrificanti. Un modo “leggero” per aiutarci a ricordare che la vita è eterna.
La pesantezza del tema si sta ormai sgretolando, permettendoci di giungere alle opere di Marianne Emmenegger, Once Upon a Time (2006). Qui l’idea che prevale è che nulla si crea e nulla si distrugge, e che la Natura rimane silente testimone di un progetto più ampio cui l’uomo non riesce ad attingere attraverso il pensiero ed il raziocinio, ma che assicura una trasformazione perenne, un ricambio continuo cui tutti noi contribuiamo con la nostra esistenza.
Infine le opere di Venere Chillemi che rimandano all’Estetica Paradisiaca. Primo, Secondo e Terzo Cielo, nelle omonime tele del 2014, quegli stessi in cui Dante, nella terza cantica della Divina Commedia, ha dispiegato le anime del Paradiso. Aniconiche, luccicanti, giocate sulla delicatezza del monocolore grigio/bianco/argento, si fanno portavoce di una pace eterna, finalmente raggiunta.
Nelle parole dell’artista: “La vita esiste perché esiste la morte, e la morte esiste perché esiste la vita”.
Adelinda Allegretti
Allegati
 Invito    Catalogo  
Opere
Agnese Cabano, La culla nel deserto (2012), olio su tela, cm 24,5x24 Alan Brain, 1914 (2014), acquerello su carta, cm 90x60 Alan Brain, Aftermath (2014), acquerello su carta, cm 45x60
Alan Brain, A Soldier's Journey (2014), acquerello su carta, cm 60x90 Alan Brain, Danger Tree (2014), acquerello su carta, cm 45x60 Alan Brain, Menin Road (2014), acquerello su carta, cm 38x62
Alan Brain, Poppies (2014), acquerello su carta, cm 45x60 Alan Brain, Trench (2014), acquerello su carta, cm 45x60 Alejandrina Solares, BalloonHandwritting blue v1 (2014), inchiostro, pastello, matita, nastro adesivo, tessuto, alluminio
Aleksandr Aksinin, A. Aksinin's Birthday (1981), ex-libris, incisione su carta, cm 9,7x13,4 Aleksandr Aksinin, Oleg Veselov (1981), ex-libris, incisione su carta, cm 13x9,3 Aleksandr Aksinin, Scylla and Charybdis (1981), ex-libris, incisione su carta, cm 13,2x9,6
Aleksandr Aksinin, V. Modylevsky (1981), ex-libris, incisione su carta, cm 13,2x9,5 Aleksandr Aksinin, Valeria Slavnikova (1981), ex-libris, incisione su carta, cm 13,5x9,7 Andreas Hafner, Enlightenment Delusion (2010), olio su tela, cm 80x120
Andrea Pierus Andrea Pierus (part.) Antoinette Pallesi, cm 50x61
Antoinette Pallesi, Il sospiro, cm 50x61 Antoinette Pallesi, La passione di Cristo, cm 54x65 Benito Aguzzoli, L'isola dei morti (2013), arte digitale su alluminio, cm 45x30
Burçin Unal, Call Me, When You Get There (2014), vetro satinato, lente d'ingrandimento, orologio, cm 50x50x9 Carlo Guidetti, Il rivolo (2014), arte digitale su alluminio, cm 70x100 Catalina Carrasco, La chambre (2015), tecnica mista su legno, cm 50x50
Catalina Carrasco, Ophelia (2015), tecnica mista su legno, cm 50x50 Catalina Carrasco, Unique (2015), tecnica mista su legno, cm 50x50 Claudio Giulianelli, Quello che non so (2005), olio su tela, cm 60x80
Death (2015), ceramica di Deruta dipinta a mano. Pezzo unico Diego Burigotto, Why? (2014), tecnica mista su tavola, cm 50x70 Elvio Ricca, Il mistero della vita e della morte (1976), olio su tela, cm 70x50
Ersoy Yilmaz, The Moon (2013), ceramica dipinta a mano, diametro cm 40 Felizitas Wermes, Fuga mortis (2014), linoleografia a colori, cm 60,5x45,5 Fiorenzo Senese, ...and Then? (2009), fotografia su carta, cm 100X75
Fiorenzo Senese, Pain (2009), fotografia su carta, cm 100X75 Francia Iñiguez, 11 Poppies (2014), bronzo, cm 33x36x40 Francia Iñiguez, 11 Poppies (2014), bronzo, cm 33x36x40 b
Francia Iñiguez, 11 Poppies (2014), bronzo, cm 33x36x40 c Francia Iñiguez, Hope vs. Death (2014), bronzo, cm 68x41x48 Francia Iñiguez, Hope vs. Death (2014), bronzo, cm 68x41x48 b
Francia Iñiguez, Hope vs. Death (2014), bronzo, cm 68x41x48 c Francia Iñiguez, The Poppy (2014), bronzo, cm 66x36x38 Francia Iñiguez, The Poppy (2014), bronzo, cm 66x36x38 b
Francia Iñiguez, The Poppy (2014), bronzo, cm 66x36x38 c Francia Iñiguez, The Soul Collector (2014), bronzo, cm 70x42x61 Francia Iñiguez, The Soul Collector (2014), bronzo, cm 70x42x61 b
Francia Iñiguez, The Soul Collector (2014), bronzo, cm 70x42x61 c Gabriele Schuller, Mitten aus dem Leben (In the Middle of Life) (2014), olio su tela, cm 50x100 Gaby Muhr, Thoughts in Fall (2014), acrilico su tela, cm 40x120
Gianmario Quagliotto, Il calice della rigenerazione (2012), olio su tela, cm 140x150 Gianna Tibaldi, Oltre i limiti (Beyond Limits) (2012), acrilico su tela, cm 100x100 Gudrun Adrion, From Eternity to Eternity (2014), carta, sedia a rotelle, catena, cm 130x70x170
GUIKNI, Las calaveras (2014), olio su tela, cm 30x40 Josefina Temín, Nadamás senos adelantaron... (They Only Went Forward) (2014), carta (papel picado), cm 46x143 Josefina Temín, Nadamás senos adelantaron... (They Only Went Forward) (2014), carta (papel picado), cm 46x143 b
Legàmi d'arte. Ritratto di dama (2015), pendente, ceramica dipinta a mano Livia Balu, Totentanz-Lebenstanz 4 (2012), olio su tela, cm 70x50 Livia Balu, Totentanz-Lebenstanz 5 (2012), olio su tela, cm 70x50
Luigi Cervone, Ligneo presagio d'autunno (2006), olio su tavola, cm 100x61 Marianne Emmenegger, Once Upon a Time 1 (2006), acrilico su tela, cm 70x50 Marianne Emmenegger, Once Upon a Time 2 (2006), acrilico su tela, cm 70x50
Marianne Emmenegger, Once Upon a Time 3 (2006), acrilico su tela, cm 70x50 Marie Perrakis, Life (2005), olio su tela, cm 90x100 Mattia Mascagni, Silent Prayer (2013), fotografia su carta, cm 50x35
Mauro Martin, The Sad Mothers (2014), tecnica mista su tela, cm 60x50 Natasha Kimstatch, Brazen Head (2011), olio su tela di lino, cm 39x49 Natasha Kimstatch, Cockaigne (2015), olio su tela di lino, cm 50x35
Natasha Kimstatch, Janicot (2012), olio su tela di lino, cm 45x47 Päivyt Niemeläinen, Iris (2011), olio su tela, cm 50x61 Patrizio Mugnaini, Chiodo fisso (2012), olio su tela, cm 40x50
Patrizio Mugnaini, Portatore di luce (2013), olio su tela, cm 40x40 Patrizio Mugnaini, Porta della sera (2012), olio su tela, cm 40x40 Patrizio Mugnaini, Scettro (2013), olio su tela, cm 40x40
Patrizio Mugnaini, Si fa sera (2013), olio su tela, cm 40x40 Roberta Moresco, Peter il sognatore. Ed è subito sera (2013), terra semirefrattaria policroma bianca e rosa, cm 20x20x25 Siegfried Pichler, Dream (2014), tecnica mista su tela, cm 80x100
Siegfried Pichler, Seelenwanderer (2015), acrilico su tela, cm 100x120 Solveig Cogliani, Croce e Resurrezione (2014), acrilico su tela, cm 50x50 Stefan Havadi-Nagy, Last Judgement, arte digitale su tela, cm 80x60
Sue Skitt, Vanitas, Beauty (2012), fotografia verniciata su tela, cm 44x60 Sue Skitt, Vanitas Skull and Grapes (2012), fotografia verniciata su tela, cm 36x44 Susana Diaz Rivera, Bones and the Eternal Spirit (2014), tecnica mista su carta, cm 35,5x24
Susana Diaz Rivera, Bones and the Eternal Spirit (part.) Venere Chillemi, Estetica Paradisiaca. Primo Cielo (2014), acrilico su tela, cm 60x60 Venere Chillemi, Estetica Paradisiaca. Secondo Cielo (2014), acrilico su tela, cm 60x60
Venere Chillemi, Estetica Paradisiaca. Terzo Cielo (2014), acrilico su tela, cm 60x60 Yajaira M. Pirela, Fantasmi II (2014), olio su tela, cm 50x100
Inaugurazione








































































































































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Adelinda Allegretti: storico dell'Arte, giornalista, curator di eventi espositivi - CREDITS